by Vittoria Corrado

Durante le grandi proteste di questi giorni in Colombia – espressione del malcontento verso il governo di Iván Duque – sono state “rispolverate” le tecniche di repressione del dissenso, tramite la messa in campo delle forze armate contro i manifestanti.
Uno studente diciottenne di nome Dilan Cruz è morto a seguito di un colpo di proiettile sparato alla testa da un agente della squadra antisommossa. E la rabbia sociale ha toccato il suo punto massimo.
La risposta fortemente militare altro non è che il riflesso della guerra civile passata e quindi della violenza – diffusa e multiforme – che caratterizza la storia del paese da oltre mezzo secolo. Durante i giorni di sciopero, la strategia attuata è stata quella di generare il panico. Atti di vandalismo e saccheggi ai negozi ed abitazioni si sono susseguiti nelle maggiori città, azioni che hanno avuto il benestare del governo e, pertanto, l’assicurazione di impunità da parte delle forze di polizia.
Il fine sotteso era quello di giustificare l’intervento armato massiccio e dunque porre fine alle richieste di riforme sociali ed economiche. Ma qualcosa non ha funzionato, e la gente è ancora per le strade a chiedere l’apertura di un dialogo su temi come la riforma delle pensioni, del lavoro, dell’università e l’attuazione degli accordi di pace raggiunti nel 2016 tra lo Stato e le FARC.
- Le manifestazioni che proseguono ancora oggi in modo pacifico, sono a rischio di una deriva violenta?
- L’agenda per l’apertura del dialogo sulle riforme, in che misura sarà accolta dall’establishment politico?
- Cosa dobbiamo aspettarci dal “terremoto” sociale che sta scuotendo tutta l’America latina?
Per ulteriori approfondimenti:
“Colombia, è morto lo studente Dilan Cruz, simbolo della protesta” di Daniele Mastrogiacomo
“Las protestas en Colombia buscan redoblar la presión al Gobierno” di Francesco Manetto